…e il nuovo libro di Alice Mado Proverbio (di Dr.ssa Laura Darsié, fonte neuroscienze.net, aprile 2019)

27 Febbraio 2020

(di Dr.ssa Laura Darsié, fonte neuroscienze.net, aprile 2019) L’avvincente lettura del testo di Alice Mado Proverbio “Neuroscienze cognitive della musica. Il cervello musicale fra arte e scienza” ed. Zanichelli, sin dalle prime pagine, ha risvegliato alla mia memoria una riflessione di Boezio: «La musica fa parte di noi in modo così naturale che non potremmo liberarcene nemmeno se volessimo». Un’intuizione dal valore universale il cui fondamento scientifico sembrava rappresentare al tempo del testo De institutione musica – l’impensabile.

Il “demone” della musica…

Un’impensabilità che già molto prima, i pitagorici avevano tentato di aggirare, rintracciando negli intervalli musicali una corrispondenza con i rapporti matematici, e cercando di stabilire connessioni scientifiche fra l’acustica del suono e quella parte ideale che conferiva alla musica un carattere divino e spirituale. Sarà poi lo stesso Platone nella Repubblicaa ironizzare sull’impossibilità scientifica di tale ricerca: egli descriverà il “pitagorico” in azione, durante le sue ricerche musicali, alludendo a colui che, con l’orecchio proteso verso il suono, cerca di origliare alla porta dei vicini per decidere «quali numeri diano luogo a consonanze e quali no e perché gli uni sì e gli altri no», compito questo – dirà Platone – «degno di un demone».

Compiendo un salto di molti secoli, ci accorgiamo che il demone di Platone non è poi così lontano da quello evocato da Luciano Berio, in un’ìntervista sulla musica: «Cercare di definire la musica è un po’ come cercare di definire la poesia: si tratta cioè di un’operazione felicemente impossibile».

Queste riflessioni che da Platone a Berio sollevano forti dubbi sulla possibilità di rintracciare un fondamento scientifico nella musica, conducono il pensiero speculativo in direzione delle più recenti acquisizioni neuroscientifiche in campo musicale. Negli ultimi decenni, la neuromusicologia impegnata ad indagare i rapporti fra cervello e musica è infatti pervenuta a un concezione di mente musicale in grado di rintracciare fenomenologicamente – e dunque, sul piano descrittivo delle neuroscienze cognitive – il nesso fra i fondamenti della percezione sonora sia dal punto di vista della neurofisiologia che coinvolge l’apparato uditivo nelle sue relazioni con le sue strutture cerebrali – sia da quello del vissuto emotivo del soggetto riguardante il piano della neuroestetica e gli effetti soggettivi dell’ascolto musicale.

La neuroestetica degli affetti

Un innovativo contributo viene così offerto in questa direzione, dal bel testo di Alice Mado Proverbio, in grado di sgombrare il campo dai molteplici dubbi che fino ad oggi hanno proliferato nelle ricerche neuromusicologiche di numerosi testi di respiro internazionale. L’autrice, infatti, – docente di Psicobiologia e psicologia fisiologica presso l’Università degli studi di Milano Bicocca – oltre, ad offrire una mappatura precisa e rigorosa di ciò che avviene neurofisiologicamente durante l’ascolto della musica, manifesta una tale competenza musicale da inoltrarsi in ambiti non solo inerenti alle potenzialità terapeutico-riabilitative della musica nelle differenti patologie cliniche, ma analizzando nella stessa mente musicale, da un lato i processi che si attivano in essa durante l’esecuzione, l’improvvisazione e la composizione musicale, e dall’altro gli effetti del piacere della musica durante il suo ascolto – restituendo al lettore una vera e propria mappatura di sapore neuroestetico, nella rivisitazione scientifica di quella retorica musicale già teorizzata nel ‘500’ dall’Affektenlehre di Zarlino.

Godimento musicale e correlati neurali

Così, ciò che per Sant’Agostino corrispondeva a un’arcana eccitante corrispondenza fra “l’arte dei suoni e tutta la scala dei sentimenti della nostra anima”, diviene nello studio dell’autrice, un vero e proprio orientamento di codifica sul piano neuroestetico riguardante la corrispondenza fra determinate strutture armoniche e l’individuazione di una tassonomia di emozioni che testimoniano – attraverso tecniche di neuroimaging – l’esistenza di basi neurali nell’esperienza estetico-musicale.

Avvalendosi dei risultati sperimentali provenienti da laboratori di tutto il mondo, e attraverso una rigorosa documentazione di «alcuni studi effettuati sui compositori, musicisti e ascoltatori ingenui con tecniche comportamentali e di neuroimmagine», l’autrice afferma che lo scopo è quello «di stabilire se, oltre al gusto personale, alla cultura e all’esperienza musicale, si possano identificare nell’architettura di un brano alcune proprietà intrinseche (armoniche o melodiche) in grado di interagire con le strutture neurobiologiche innate del cervello in modo predittivo e piuttosto universale (pp. 165-166)».

L’esito delle ricerche neuroscientifiche documentate da Alice Mado Proverbio conferma che nell’ascolto della propria «musica favorita o comunque, gradita all’ascoltatore, che induce quindi emozioni a valenza positiva come la gioia, il piacere o la tenerezza, attiverebbe l’area tegmentale ventrale (VTA), la corteccia striata, il circuito della ricompensa e la corteccia orbito-frontale (Trost et al., 2015), regioni che supportano il piacere e la soddisfazione. Al contrario, il senso del pathos o melodramma – sentirsi emotivamente colpiti al cuore, provare nostalgia o dolore – sarebbe associato all’attivazione cerebrale dell’insula (dolore psicologico), della corteccia cingolata (empatia e connotazione emotiva di eventi), della corteccia prefrontale ventromediale (elaborazione delle emozioni) e dell’ippocampo (memoria episodica). […] Infine il senso di agitazione e le forti emozioni negative come la tensione, l’eccitazione o l’ansia, attiverebbero invece, l’amigdala e le aree sensoriali motorie (p. 169)». Rispetto a tali corrispondenze neurali, in generale si può affermare che le emozioni più facilmente inseribili nelle tre macro-categorie estetiche (senso del sublime, vitalità e disagio) suscitano attivazioni neurali piuttosto distintive e sono piuttosto riconoscibili nella loro localizzazione neurale, mentre gli stati d’animo complessi «tendono a condividere parte dei circuiti emotivi».

Trasmettere emozioni sonore: atto libero o precostituito?

Certamente, il tentativo di sistematizzazione delle emozioni suscitate dall’ascolto di certi brani rappresenta pur tuttavia, un’operazione non priva di rischi se si pensa che da un lato, il riduzionismo organicistico è sempre alle porte e che dall’altro, ogni atto compositivo – in quanto frutto di un processo creativo – è libero da direttive di destinazione precostituite rappresentando l’espressione soggettiva del compositore. È infatti, a questo proposito che la finezza speculativa dell’autrice, non cede affatto all’ingenuità di avere individuato la chiave definitiva delle corrispondenze fra stati d’animo e loro basi neurali, ma si affida al pensiero teorico musicale di Pierre Boulez e di Vittorio Zago a proposito della libertà dell’atto compositivo che non nascerebbe dall’intento di emozionare direttamente l’ascoltatore ma come atto comunicativo del sé, ovvero dell’io persona. In tal senso, il linguaggio musicale, coinvolgendo l’ascoltatore si concentra non sulle emozioni ma sulla modificazione esistenziale della condizione personale che si vuole offrire all’altro. Dalla consapevolezza dell’ascolto nascerebbe così un residuo esperienziale che permette all’uditore di mutare il proprio pensare. Una trasformazione soggettiva che rievoca in termini psicanalitici quanto Freud affermava riguardo alla tonalità affettiva del soggetto risvegliata dall’emozione provata durante l’ascolto musicale. Certo è che una volta individuato “questo elemento”, come afferma Zago, «seguono una serie di passaggi molteplici che portano a realizzare la complessità di una struttura idonea a comunicare quanto appena accennato. È all’interno di questi passaggi che si presenta – ma non sempre allo stesso stadio – l’occorrenza di porre attenzione ad alcune emozioni da trasmettere (p.166)». Ed è ciò che avviene soprattutto in certe musiche da film, alle quali il testo della Mado Proverbio – con particolare attenzione a Stanley Kubrick – dedica un’interessante sezione.

La musica è un “suono organizzato”

Così, nel tentativo di individuare un’intenzionalità emotiva dell’atto compositivo, lo studio dell’autrice va in direzione di un’analisi del fenomeno “dell’ascolto musicale”, non tanto nei termini di una mera scomposizione organicistica di ciascuna delle sue componenti – quanto nella possibilità di identificare nella mente musicale delle aree specifiche di attivazione la cui formulazione sia mediata dall’ipotesi di meccanismi cerebrali corticali e sottocorticali complessi, a volte, in reciproca sovrapposizione – laddove, tuttavia, il viatico per l’inconoscibile resta pur sempre, un punto di apertura. La ricerca della Mado Proverbio potrebbe così, a giusto titolo accostarsi alla definizione di musica intesa come “suono organizzato” attribuita Edgar Varèse, al fenomeno musicale nella sua opera The liberation of Sound. In questo saggio Varèse – aprendosi a una nuova era musicale in cui la scienza diviene dominante – non era alla ricerca di una definizione generale della musica che si potesse applicare a qualsiasi genere musicale ma utilizzava questa descrizione per distinguere le sue audaci composizioni sonore dalla musica convenzionale. In un passo egli afferma: «Ho deciso di definire la mia musica “suono organizzato” e me stesso non come un musicista ma come “un operaio dei ritmi, delle frequenze e delle intensità”». Quest’affermazione, se interpretata a mò di provocazione, potrebbe fare apparire Mozart come un tecnico di laboratorio, ma Varèse non si considerava un iconoclasta: esperto di musica antica, condivideva come molti studiosi dell’antichità una visione della musica come una sorta di lavorazione artigianale del suono in cui – contrariamente alla concezione romantica del XIX secolo occupata a concentrarsi sull’aspetto misterico e mistico dei suoni – la musica veniva analizzata in termini di frequenza e intensità.

Suoni e parole: chi è arrivato prima?

Tuttavia, è pur vero che la musica non può essere meramente considerata come una serie di eventi acustici nonostante alcuni studiosi del fenomeno musicale – di fronte all’impossibilità di accertare ogni ipotesi sull’origine della musica – abbiano cercato di ridurne l’importanza a uno “zuccherino uditivo”. Mi riferisco alla celebre, quanto mai criticata, affermazione di Pinker che dipingeva la musica come parassita estetico in dipendenza della funzione prioritaria del linguaggio liquidandola alla sua funzione edonistica, piuttosto che relegandola a una “funzione adattiva” impressa nel cervello dall’evoluzione con lo scopo di restituirle una dignità rispetto alla priorità del linguaggio. Lo stesso Patel del Neusciences Institute di San Diego – nonostante la feroce critica al pensiero di Pinker al quale ribatte che la musica non è solo il prodotto della nostra mente in quanto ha soprattutto il potere di trasformare il nostro cervello – nel suo accuratissimo testo del 2008 Music, language and the brain, non si azzarda ancora ad asserire con certezza se fra musica e parola vi sia un canale diretto poiché alla domanda: “Che cosa fa suonare così francese la musica di Debussy o di Satie?”, si limiterà a rispondere sostenendo che quando i compositori scrivono musica, i ritmi linguistici sono “già nelle loro orecchie” e possono attingere consapevolmente o meno a tali modelli. Se da un lato ciò indica il fatto che il linguaggio di una nazione esercita un’attrazione gravitazionale sulla struttura della sua musica, d’altra parte è ancora ben lontano dal dimostrare che non solo parola e musica condividono la stessa origine ma che addirittura è la musica a conservare un ruolo prioritario rispetto al linguaggio.

La musica è originaria…

Ma è a questo proposito che con estrema chiarezza espositiva, il testo di Alice Mado Proverbio supportato dalle più recenti acquisizioni neuroscientifiche riguardanti la dibattuta questione sui rapporti fra linguaggio e musica, sostiene – in linea con la teoria di Steven Mithen – che la stessa musica è la prima forma di linguaggio in quanto si pone come protolingua di un linguaggio universale che nasce dal canto: «gli ominidi comunicavano in modo olistico, modulando il tono, la durata e la prosodia di alcuni suoni. Le frasi musicali variavano in altezza (melodia) e ritmo, non sulla base di regole composizionali, cioè di fenomeni assemblati, come tipico del linguaggio dei Sapiens. Modulazioni prosodico/melodiche fisse corrispondevano perciò a precisi significati […]. Le vocalizzazioni, ovvero il canto, erano utilizzate per comunicare informazioni, esprimere emozioni e comportamenti in altri individui. Dal punto di vista evoluzionistico, la capacità di cantare precede quindi la capacità di parlare articolando i fonemi. Potremmo quindi dire che il nostro cervello è plasmato su questa abilità espressiva (pp. 19-20». Un’acquisizione scientifica non lontana dall’intuizione wagneriana: «il più antico, vero, bello strumento, da cui origina la nostra musica, è la voce umana», confermata dall’indagine cognitiva dell’autrice che – attraverso una accurata analisi relativa al ruolo dei neuroni specchio audiovisuomotori – prende le mosse dalla vocalizzazione infantile nell’ascolto dello stimolo materno, per giungere infine, alla complessa analisi della neuroanatomia funzionale del cervello dei cantanti. Per questi ultimi l’abilità canora si basa su un hardware neurale estremamente intricato e complesso che nella fase di elaborazione del feedback uditivo – costituito dalla forma uditiva della vocalizzazione prodotta – vede convergere le proprie informazioni nell’insula – in grado di integrare l’elaborazione del feedback sensoriale con il controllo del movimento vocale – ma nella totale assenza «delle principali regioni coinvolte nella produzione linguistica, normalmente implicate nel canto di un testo (p.25)».

Il protosuono e il materno

Dunque, la musica è originaria e la sua universalità non può prescindere dal riferimento a quel ritmo primordiale o “protosuono” che l’essere umano percepisce nell’epoca prenatale. Già Groddek – contemporaneo di Freud – nel 1925 sosteneva senza alcuna prova scientifica, che i dati fisiologici del periodo prenatale, durante il quale il feto non può scoprire, attraverso le sue impressioni, altro che il ritmo regolare del cuore materno e del proprio, mettono in luce i mezzi di cui si serve la natura per infondere profondamente nell’uomo il senso della musica poiché «la musica è essenzialmente ritmo e cadenza e, in quanto tale, si trova ancorata nelle più grandi profondità dell’umano». Ed è sulla scia di un rapporto innato con la musica che procede il testo dell’autrice sfatando l’antico mito delle consonanze e dissonanze, sostenendo – a seguito di una rigorosa analisi sul piano acustico e neurofisiologico della percezione – che nella codifica di consonanze e dissonanze «non intervengono, dunque, né aspetti culturali, né di preferenza estetica o di esperienza». In altre parole, sarà interessante notare che «ciò che è preferito dalle strutture neurali è anche soggettivamente ed esteticamente preferito dalla mente dell’ascoltatore (p.153)». Non solo, ma in altri studi di neuroimaging, si è osservato che già il cervello di un bambino appena nato sia specializzato per la codifica di suoni musicali consonanti.

Gli effetti benefici della neuromusicologia

Se questi sono i risultati delle basi neurali della musica, non può allora sorprendere il suo effetto benefico su alcuni disturbi del linguaggio come la dislessia nonché la funzione fondamentale del ritmo e della sincronizzazione neurale alla pulsazione, nei suoi effetti “miracolosi” e riabilitativi nel Parkinson e altre malattie degenerative.

Il denso libro di Alice Mado Proverbio affronta così un’ampia rosa di argomenti “neuromusicali” che passando in rassegna il ruolo dei geni nell’attitudine alla musica chiariscono il mito dell’orecchio assoluto per approdare a quello svolto dai neuroni specchio audiovisuomotori nell’apprendimento della musica, in riferimento non solo agli effetti terapeutici nell’ambito della plasticità cerebrale ma anche nell’affinamento dell’abilità esecutiva del musicista piuttosto che nella capacità di coordinarsi con gli altri cointerpreti, nella musica d’insieme in ambito orchestrale.

Un libro per studiosi di neuroscienze ma anche per musicisti e appassionati – in grado di restituire finalmente e con chiarezza, risposte, fino ad oggi, ritenute “impensabili” …

Articolo della Dr.ssa Laura Darsié. Fonte: neuroscienze.net, aprile 2019